Lo spettacolo, vera e propria prova d’attore, racconta attraverso le poesie del poeta León Felipe – che Tassinari ha tradotto e ricomposto creandone un testo teatrale – le vicissitudini interiori di un pagliaccio scisso e in crisi che, posseduto dalle visioni sorprendentemente attuali del grande poeta spagnolo morto in Messico nel 1968 dopo trent’anni d’esilio, abdica al suo dovere di buffone e chiede la parola. Non uno spettacolo di clownerie quindi, ma una poetica e intensa meditazione su temi quali la guerra, la giustizia, la normalità e la diversità, la responsabilità dell’artista davanti ai conflitti e alle contraddizioni umane.

Lo spettacolo di Antonio Tassinari,  che indaga a tentoni nel buio dell’esistenza,  non fa sconti, non  tralascia alcuna  denuncia di miseria, alcuno sfogo circa l’invivibilità del mondo.

Lo sfogo è quello di un clown troppo umano, ed è drammaturgicamente più corretto dire che lo spettacolo ufficiale non andrà mai in scena. Il pagliaccio traccheggia tra lazzi che non fanno ridere e dolorose gag basate su sé stesso, sulla manifestazione del proprio male di vivere, sul denudamento dell’io: del suo stesso corpo segnato come quello di qualunque altro uomo, per il solo fatto di esistere. Inizialmente si presenta come “il maggiordomo della pista”, vicino alla conclusione si definirà “il pazzo della pista, il pazzo perso della pista” con “due ferite purulente nelle cervella”: tra queste parentesi, l’attesa del richiamo del padrone, sotto gli occhi partecipi degli spettatori, in quella attesa che è la vita, piena di vuoto.

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